
12 Apr Heydi

Riomaggiore
Quella piccola è per mio figlio, ha sette anni.
A tre gli abbiamo regalato la sua prima tuta da apicoltore, poi ora gli è presa paura delle api. Ma gli passerà.
L’ape ti aiuta anche nella vigna, ed è un indicatore.
Nelle mie piane ho 130 piante di agrumi, perché è tutto l’ecosistema che conta.
Ho 41 anni, ho vissuto sempre a Riomaggiore. Sin da giovane mi sono avvicinato alla campagna. Nel ‘94 mi sono unito a un gruppo di volontari a Riomaggiore per rimettere a posto sentieri e altre zone da recuperare. Eravamo sempre sporchi di terra, per gli altri era una vergogna, per me un orgoglio. Avevo il mio pezzo di terra a Possaitara: per arrivarci devi fare una ventina di minuti a piedi. Devi buttartici un po’ dentro, insomma. Poi ho iniziato a prendere i campi vicini, abbandonati, anche perché le frane dei territori vicini mi impedivano di lavorare il mio. Ne ho presi 62 diversi, ma erano tutti poco più che fazzoletti di terra. In alcuni casi gli accordi non erano neanche formalizzati, ma rimanevano verbali: la parola del contadino è l’unica che vale. Ma è difficile spiegarlo alla burocrazia: dopo due anni che non coltivi il territorio si crea un suo equilibrio: per poter ripulire devi avere il diritto di espianto della macchia mediterranea. E servono tutti i fogli… un casino. Nei miei territori ho macchie mediterranee, dovute al fatto che alcuni appezzamenti erano di famiglie dell’800 per cui ora ci sono 70-80 eredi, di cui magari un terzo sono in Argentina, e nessuno sa chi siano. Come faccio a farli firmare tutti?
Nel 2004 ho fondato l’etichetta Possa, ma ero ancora nella cantina di altri. Nel 2007 mi sono poi preso la mia. Ora siamo in tre. Coltivavamo la galletta, un tipo di uva lunga e piatta, a mezzaluna, più adatta per la tavola. Mio figlio la adora. Non usiamo pesticidi, solfiti e tutte quelle altre robacce.
La scelta dell’agricoltura pulita quando sei contadino e imprenditore non è un vezzo, ma un obbligo: se usi veleni, il primo ad avvelenarsi sei tu.
La biodinamica è la trascrizione scientifica di quello che i vecchi facevano inconsciamente, per tradizione orale. Che alla base degli uliveti ci sono le amarene, e che lo Sciacchetrà è fatto in luna calante per evitare la rifermentazione, lo sapevano tutti anche prima di leggerlo sui manuali delle Triple A. Nei miei terreni ho muretti a secco che hanno anche 500 anni. Filtrano l’acqua come nient’altro. Anche questo non era scritto da nessuna parte, eppure…
L’alluvione del 2011 ha cancellato i miei terreni di Monterosso, insieme a 6.000 mq andati in fumo per gli incendi a Riomaggiore lo stesso anno. Sette terrazze sono collassate e cadute una sopra all’altra. Mi hanno anche seppellito il trenino.
Ci ho messo venti giorni senza mai fermarmi a risistemare tutto.
Abbiamo ritirato fuori 19 varietà, vorremmo fare tante mini-vitificazioni mono vitigno.
Ora faccio 18mila bottiglie l’anno, all’inizio facevamo quasi tutto estero, poi sono riuscito a invertire la proporzione. Tra gli stranieri, il Giappone è il primo mercato, poi Singapore e Stati Uniti. Prima i giapponesi venivano qua e poi ordinavano via internet.
Fino al 2016 dovevo fare il doppio lavoro: di notte al Porto di Spezia, di giorno contadino. Ora sono finalmente qui a tempo pieno.
Abbiamo anche l’unico vino della Palmaria, dove facciamo il nostro bianco Parmaea. Facciamo 2-3 viaggi per caricare in gozzo le uve da lì a Riomaggiore. Le vigne sono di due signori di Spezia che ne sono proprietari da 50 anni. Mi hanno chiesto una mano perché non riuscivano più a vendemmiare da soli. Ora, con il vitigno della Palmaria, facciamo 1.200 bottiglie. Di Sciacchetrà invece mille normali, 850 in anforato. Le vedi quelle botti lì? Alcune sono in ciliegio, altre in pero. Quelle in pero per me hanno un sapore incredibile, è un legno che rilascia tutto, la vedi quella com’è deformata? E ha solo due anni.
Mia moglie è di Monterosso, a volte c’era un po’ di shock culturale ma ora l’abbiamo superato.
La strada qui è arrivata nel ‘65, ma i primi anni gli spezzini ci consideravano di seconda classe. Noi non sapevamo neanche l’italiano. Sono i nostri genitori che ci hanno imposto di lasciare il dialetto per non essere considerati rozzi.
I premi li ho ricevuti dal 2013 in poi, quando mio padre era già fuori da tutto. L’amore per questa terra lo devo totalmente a lui.
Lavorare coi bimbi mi gratifica moltissimo. La speranza è trasmettere questo amore a mio figlio. E magari che qualcuno venga da fuori anche per mettere in sicurezza almeno le zone fuori dai Paesi, che sono le più critiche. Non vogliamo che le cantine diventino camere da affittare, ma che tornino a fare il loro mestiere. Ecco cosa siamo qui a fare”.